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"Doing a Bradbury": Steven Bradbury, il pattinatore che rese la tenacia un modo di dire

Quando si tratta di sport, si sente spesso parlare di atletismo, mentalità, pratica e talento. Tuttavia, nelle storie che restano negli annali, quelle che si raccontano con gioia ma anche un pizzico di nostalgia, un fattore è imprescindibile: la tenacia.

Questa è la storia di Steven Bradbury. Originario di Camden, l'australiano ha compiuto sin da giovanissimo una scelta alquanto inusuale. In Australia si prediligono sport quali rugby, football australiano e nuoto. Questo giovane atleta propende per il pattinaggio sul ghiaccio, più nel dettaglio lo short track. Per potersi allenare, usufruisce dei palazzetti di hockey su ghiaccio e ad affascinarlo così tanto di questa disciplina sono indubbiamente adrenalina e velocità.

Nel suo percorso di crescita ha mostrato esponenziali miglioramenti. È promettente già come atleta junior e proseguendo su questa falsariga, avrebbe di certo tutte le carte in regola per provare a regalare all'Australia la prima gioia olimpica negli sport invernali di cui il palmares aussie è totalmente sfornito. Bradbury lavora assiduamente per farsi spazio in questo contesto ed inizia pian piano a convincersi che il giusto mix tra talento e duro lavoro possa concedergli finalmente la grande occasione. Che arriva nel 1991.

Il Mondiale e l'Olimpiade: il trampolino di lancio di Bradbury

Nel 1991 Bradbury irrompe sul palcoscenico internazionale vincendo l'oro ai Campionati Mondiali di short track che hanno avuto luogo proprio in Australia. Qui ha reso chiaro ai propri avversari che da quel momento in poi sarebbe stato lui l'uomo da battere. La sua avventura olimpica inizia nel 1992 ma al netto di quelle che erano le aspettative dello stesso, ritorna a casa senza alcuna medaglia.

Bradbury non demorde. È consapevole del suo valore e sa che il duro lavoro ed una mentalità vincente possono pagare sul lungo periodo. Esattamente come avvenuto nel 1991 e 1992, prende parte ai Mondiali di Guildford del 1993 e a quelli di Pechino del 1994 gareggiando nella 5000 m staffetta. Vince rispettivamente un argento e un bronzo, incrementando ulteriormente la sua bacheca dopo l'oro di Sydney.

Il 1994 è anche l'anno delle Olimpiadi invernali che hanno luogo a Lillehammer, Norvegia. Qui, arriva la prima soddisfazione olimpica. Bradbury riesce a vincere l'argento nei 5000 m staffetta. Prova di forza non indifferente per l'Australia che prima di allora non era mai riuscita ad imporsi negli sport invernali a livello olimpico. Alla gioia e alla soddisfazione viene dato il giusto peso. Tempo poco e l'atleta torna ad allenarsi con l'auspicio di trionfare di nuovo e a breve.

I presupposti parevano i migliori ma il destino aveva deciso diversamente. Il fato ha provato a mettere i bastoni fra le ruote a Bradbury. Tuttavia, lo stesso non aveva fatto i conti con la tenacia dell'atleta.

Il tracollo e la rinascita

Dopo le gioie e i risultati raggiunti nei primi anni 90, nel 1994 arriva per Badbury il primo grave infortunio. Nel corso di una gara individuale sui 1500 m a Montreal valida per la Coppa del Mondo, si verifica una caduta in pista e ad avere la peggio è proprio l'australiano. L'atleta aussie si scontra accidentalmente con la lama del pattino di Fredric Blackburn e qui inizia un calvario non indifferente.

Le conseguenze di questo incidente sono alquanto impattanti sulla carriera di Bradbury. L'impatto con la lama dell'avversario gli recide l'arteria femorale in modo profondo. L'australiano perde 4 litri di sangue, per chiudere la ferita servono 111 punti di sutura, nonché 18 mesi di riabilitazione. Il pattinatore però non demorde e non si fa abbattere dalla vicenda. Come ogni grande sportivo, riesce a trovare la motivazione quando tutte le congiunzioni astrali paiono avverse.

Bradbury si presenta nuovamente alle Olimpiadi di Nagano del 1998 ma esse saranno completamente scevre di medaglie e soddisfazioni. Steven è tornato a sfiorare il ghiaccio ma fisicamente non è più lo stesso. Tuttavia, è consapevole del suo talento nonché del fatto che la sua carriera sia lungi dall'essersi conclusa. Questo lui lo sa ed inizia a lavorare assiduamente per i Giochi di Salt Lake City del 2002.

Il suo percorso però si rivela tutt'altro che lineare. Nel 2000, durante un classico allenamento, di quelli che svolgeva ogni giorno arriva un altro grave infortunio. Bradbury cade malamente e si rompe due vertebre del collo. La sua carriera, mai giunta realmente all'apice, sembra essere definitivamente conclusa. Qui entra però in gioco la tenacia e la voglia di rivalsa per eventi avversi che gli hanno precluso tante, troppe soddisfazioni.

Bradbury rinasce dalle proprie ceneri come una fenice

Quando si rimette da questo secondo grave infortunio, Bradbury ha ormai 28 anni. Lo spettro dei guai fisici è ben presente nella sua mente ed i suoi avversari, quelli che lui si troverà verosimilmente di fronte a Salt Lake City sono nel fiore degli anni, dal punto di vista sportivo, e particolarmente veloci.

In preparazione alle Olimpiadi invernali del 2002, Bradbury si sottopone ad estenuanti allenamenti. Così impegnativi da ogni punto di vista da poter essere paragonati a quelli svolti dai Marines. L'australiano ha indossato nuovamente i pattini ma non è più lui, atleticamente parlando. A contraddistinguerlo è la tenacia e la forza di volontà.

Salt Lake City arriva e Bradbury deve affrontare i suoi fantasmi. La qualificazione alla semifinale arriva in modo alquanto fortuito. Il canedese Marc Gagnon, campione del mondo in carica, viene squalificato ed il suo posto lo prende l'australiano. Singolare è stato anche il suo approdo in finale. L'esperienza ha fatto da spartiacque. Si tiene lontano dal quartetto di testa per evitare di essere coinvolto in eventuali cadute e si guadagna così l'ultimo posto disponibile per la finale.

Un segno del destino? Forse. O più semplicemente era arrivato per Bradbury il momento del contrappasso.

Arriva la finale e Bradbury deve fare i conti con i suoi fantasmi, dalla condizione fisica ormai compromessa all'anagrafe. Ancora una volta, l'australiano fa ricorso all'esperienza ed a quella capacità che hanno solo gli sportivi di trasformare il dolore in motivazione. Pure in questo caso evita di immettersi nel gruppo di testa. Un'eventuale caduta sarebbe stata fatale. Così facendo si trova alle spalle dei quattro che si possono contendere una medaglia.

La numerologia ha il tempo che trova ma, specie delle discipline il cui fine ultimo è la velocità, ha una sua valenza specifica. Il numero chiave è 4. Difatti, sono esattamente 4 i secondi nei quali tutto cambia, nonché 4 gli atleti che cadono nel corso della gara.

Due degli atleti in testa alla gara si scontrano nel tentativo di superarsi a vicenda prima dello sprint finale. Gli stessi causano la caduta di ben 4 atleti, lasciano pista libera a Bradbury. L'australiano trova il vuoto davanti a sé e taglia il traguardo per primo.

Bradbury non ha solo vinto la prima medaglia individuale assoluta alle Olimpiadi nei 1000m short track ma la prima e unica dell'Australia, in questa disciplina, ai Giochi Olimpici Invernali. Al termine della gara, l'atleta dirà che questa vittoria è arrivata non per gli 90 secondi, bensì per tutti gli sforzi fatti negli ultimi 14 anni.

In anni successivi, lo stesso Usain Bolt ha affermato che gli atleti olimpici si allenano 4 anni per pochi secondi di gloria. Si può disquisire sui pochi secondi ma la tenacia di questi sportivi nel perseguire l'obiettivo dell'Olimpiade, li identifica come una sorta di semidei che meritano di essere raccontati.

In tal senso, l'impresa di Bradbury è entrata nel modo di parlare degli australiani. Difatti, "doing è Bradbury" è diventata un'espressione utilizzata dai nativi aussie, presente anche nei dizionari autoctoni, per indicare la ricerca matta e disperatissima di un successo tanto clamoroso quanto inaspettato.