talento sprecato Adriano

Calcio

Adriano e le follie dell'Imperatore

Natal com os primos - natale con i cugini: questo è l'ultimo messaggio apparso sulla bacheca Instagram di Adriano Leite Ribeiro.

Il post ritrae l'icona brasiliana in compagnia di tre amici (parenti?), nella più classica delle pose a petto nudo che lo hanno reso ahilui - ma anche ahinoi - noto dopo (e durante) l'addio al calcio (2016 la data ufficiale dell'ultimo contratto al Miami United).

In questa foto c'è come la rappresentazione plastica, meglio mediatica, di cosa sia diventato Adriano nel tempo: ma cosa è stato, il fuoriclasse verdeoro, per noi appassionati di Futbol? S

e è vero che ogni grande amore è accompagnato da ricordi indistinti, fugaci eppure nitidi, così per Adriano - primus inter talenti perduti - vale lo stesso: c'è l'Adriano che esplode all'Inter dopo aver incantato al Parma, c'è quello che sempre all'Inter, poi al San Paolo e al Flamengo, ma soprattutto alla Roma, implode come una stella troppo luminosa, che s'acceca da sola; c'è infine l'Adriano macchietta di se stesso, quello che abbandona (inconsapevolmente) il calcio giocato per mostrarsi al mondo social - nel pieno della sua diffusione - in tutta la sua decadenza. Eppure, laddove c'è decadenza, c'è stata gloria.

In principio era il tiro

E il tiro era presso Adriano, e il tiro era Adriano. Ci perdonerà Giovanni, ma per raccontare un talento simile scomodare la teologia non è poi cosa troppo ardita.

In principio, dunque, era il tiro. Così nella stagione 2000/2001, la prima da professionista, i tifosi del Flamengo conoscono Adriano - quell'Adriano ancora noto come Leite Ribeiro, presso quei lidi, i suoi lidi. Sette gol in diciannove partite sono sufficienti affinché l'Inter - e Moratti - si innamorino di lui, prelevandolo dalla società brasiliana nell'estate successiva.

L'Inter, dicono gli esperti di calciomercato, è andata su di lui per coprire l'assenza - più di un anno, a quel punto - di Ronaldo il Fenomeno, alle prese con il ginocchio che lo ha reso celebre nel bene, ma anche nel male. I tifosi nerazzurri ancora tessono la tela dei rimpianti aspettando il suo ritorno, e così, con un occhio triste e un altro rabbioso, vedono scendere in campo questo ragazzotto che viene dal Brasile. L'esordio, seppure in amichevole, rimane memorabile: è il 14 agosto del 2001 e si gioca Real Madrid vs Inter, al Santiago Bernabeu.

Cuper, el hombre vertical, chiama Vieri verso la panchina e manda in campo Adriano, appena 19enne, sul punteggio di 1-1, quando mancano otto giri di lancette alla fine. Sono sufficienti per far cambiare l'espressione sul volto dei tifosi bauscia: un occhio è rimasto rabbioso, ma quello triste s'è fatto sgranato, non ancora sorridente ma come gioioso. Adriano in otto minuti fa il pandemonio calcistico: corre, scatta, dribbla, combatte e decide la sfida con un calcio di punizione spaventoso che spacca la rete alle spalle di Iker Casillas. La sua è un'epifania, ma per ora è solo quella.

All'Inter ci sono ancora Vieri e Ronaldo, e quegli otto minuti, per quanto incredibili, non bastano a trattenere il prodigio in terra milanese. Adriano se ne va in prestito prima alla Fiorentina (6 gol in 15 partite) poi al Parma (2002-2004), dove rimane due anni a farsi le ossa e a farle, lui, agli avversari incontrati lungo il cammino, in quella che è ancora una Serie A di altissimo livello.

Adriano, nell'iconica divisa gialloblu, forma insieme a Mutu una coppia da sogno che i tifosi Ducali non dimenticheranno mai. In quel Parma, che è anche l'ultimo residuale mitico del grande Parma tra i '90 e i 2000, Adriano già non più Leite Ribeiro segna 23 gol in 37 partite, molti dei quali di una bellezza sconvolgente.

Il suo calcio è tutto potenza e delicatezza: Adriano è un talento paradossale, inspiegabile nelle sue caratteristiche. Uno di quelli che Sant'Anselmo avrebbe forse preso ad esempio per un'ulteriore prova ontologica dell'esistenza di Dio.

Sono parole grandi, che però rendono anche poco l'enormità di talento che Adriano ha mostrato al mondo. Quando torna all'Inter, nel 2004, Adriano è uno degli attaccanti più forti della sua generazione. Forse il più forte, certamente il più completo, almeno a livello potenziale. Fisico, forza muscolare, velocità, tecnica e - ci ripetiamo, a costo di risultare noiosi - un tiro che troverà un paragone solo molti anni dopo con quello di Hulk, nomen omen. Adriano però non è solo forte, è imperiale.

Anche in Brasile, dove nel frattempo diventa colonna portante in una nazionale già ricca di divinità. I verdeoro hanno vinto il Mondiale due anni prima, e ripetono l'impresa in Copa America appunto nel 2004. Adriano in quell'edizione è protagonista assoluto con 7 gol - miglior marcatore del torneo, che si gioca in Perù - e il titolo di MVP della stessa. In semifinale contro l'Argentina di Bielsa Adriano, che chiamano Dinamite, diventerà O Imperador, l'Imperatore. La gara, bloccata sull'1-1, subisce uno scossone all'87' quando Delgado segna la rete del 2-1, ma per l'Albiceleste. Mentre il dramma è ad uno schiocco di dita dal consumarsi, Adriano riprende la partita per i capelli pareggiando nei minuti di recupero. Si andrà ai rigori, che verranno decisi proprio da una rete di Adriano.

È il miglior momento della sua carriera. Adriano ha il Brasile - e quindi il mondo - ai suoi piedi. Con i Verdeoro si aggiudicherà, oltre quel titolo, anche una Confederations Cup l'anno dopo nel 2005. Ma questo è già un altro Adriano, quello che non chiamano più Leite Ribeiro, neanche per errore. È un Adriano più maturo, certo, ma anche più triste e già ad un passo dalla caduta.

Se il nome ti precede

Dopo aver vinto la Copa America, Adriano è felice. Non lo era da quando, dodici anni prima, suo padre Almir si era miracolosamente salvato in seguito a una rissa tra gang rivali nei pressi di Vila Cruzeiro: ma i segni di quel miracolo, una pallottola conficcata nel cranio, dovevano essere gli stessi che lo porteranno alla morte appunto nel 2004. Almir viene rinvenuto senza vita nella sua casa di Rio: ha 44 anni. Adriano ne ha 22 quando la sua vita, persa quella del padre, va smarrendosi di riflesso.

Troppo è il dolore, pochi - nessuno? - i compagni di viaggio in grado di stargli vicino, di capire il suo stato mentale.

«Dopo la morte di mio padre, curavo la depressione con l'alcol e bevevo tantissimo, soprattutto birra. All'Inter, ai tempi di Mancini, mi presentavo ogni giorno ubriaco. A casa non dormivo per paura di fare tardi all'allenamento, ma arrivavo in condizioni talmente impresentabili che mi mandavano a dormire in infermeria e ai giornalisti dicevano che avevo problemi muscolari».

Adriano con l'Inter vince due campionati, due coppe Italia, tre supercoppe italiane. Dell'Inter è ancora oggi il miglior marcatore in assoluto in Champions League con 18 reti. Ma di lui non si fa che ricordare il declino, la lenta e inesorabile caduta.

In coppia con Ibrahimovic, nell'ultima grande Inter pre-Triplete, formava un duo quasi fantascientifico a ricordarlo oggi. Parliamo dei due giocatori insieme più forti e tecnici del XXI secolo - e considerando quanto era molto meno fisico il calcio prima del 2000, forse non solo del nostro secolo.

L'ultimo gol con la maglia dell'Inter lo sigla in un derby, sotto l'ala già non più protettiva di Mourinho, che in quel fenomeno già non vedeva più le potenzialità inespresse ma il peso di un passato troppo grande da portare su uno spirito così depotenziato.

Non l'ha capito la Roma, che lo acquista nel 2010 presentandolo in pompa magna, roba che al confronto la presentazione di Lukaku è stata una formalità.

MO' TE GONFIO, si legge su una sciarpa lanciatagli chissà da chi in una delle primissime foto atterrato a Fiumicino, da nuovo giocatore giallorosso. Aveva ragione Mourinho: Adriano già nel 2010 è un calciatore assente, preceduto dal nome, e seguito dal gossip.

Per la Capitale gira a sonagli il pettegolezzo sul brasiliano: si allena poco e male, non ha più voglia di giocare. La gioia è sparita dal suo volto, lasciando spazio a dimensioni fisiche non più consone al mestiere che lo ha reso grande, ma ancora sufficienti a permettergli un ultimo saluto al calcio degno di nota, in Brasile.

L'impero in rovina, evviva l'imperatore!

Adriano quindi tornerà al Flamengo. Lo accoglieranno come il Figliol Prodigo, e a ragione. Qui Adriano aveva mosso i primi passi di bambino e calciatore, precisamente alla Rocinha, la più grande favela del mondo con 150mila abitanti: Rio de Janeiro.

La città che è come una maschera stampata sul volto di chi vi cresce. Bella e dannata, ridente e oscura. Ricca di vita, poverissima di materia. Ma in fondo amante con chi l'ama.

A differenza di Sao Paulo, città più matura, laddove Adriano aveva giocato prima nel San Paolo e poi nel Corinthians, appunto dopo l'esperienza romana. Ma qui le cose erano andate molto male. Il presidente del club aveva dichiarato, alcune settimane dopo il suo infortunio al tendine:

«È una persona adulta, sa cosa è giusto fare e sta a lui sapersi gestire. Se non riesce a rinunciare alla birra, che beva tranquillamente. Anzi, gli consiglierei di bere whisky, che fa ingrassare ancora di più».

Era finita, naturalmente. Dopo l'Atletico Paranaense e la già menzionata esperienza in MLS con Miami, Adriano torna a Rio de Janeiro. Ha smesso di giocare, ufficialmente s'intende, e ha deciso di lasciarsi andare definitivamente. Briglie sciolte, l'arbitro ha fischiato tre volte e la doccia calda non è neanche il primo pensiero. Prima c'è la disperazione, il silenzio e la mancanza di empatia di chi da fuori l'ha visto cadere e l'ha poi giudicato, senza mai dargli una mano o fermarsi a comprendere.

«Non sono un santo. E ho fatto cose nella mia vita di cui mi pento. Ma quello che mi fa più male è che quando si parla di Adriano bisogna dire solo cose negative. Questo mi rende davvero triste».

Per quanto possa valere, Imperatore, proviamo lo stesso sentimento. Capire non è facile, soprattutto quando vedi un talento simile affievolirsi giorno dopo giorno.

Battiamo i pugni sul tavolo, ma alziamo sorridenti gli occhi al cielo: ti abbiamo visto giocare, Adriano, anche solo per un attimo.