Calcio

Perché l'Italia è la meno multietnica tra le grandi nazionali d'Europa?

Tra le tante cause che si sono elencate nell'analizzare la vergognosa eliminazione dell'Italia dall'Europeo 2024 si è tirato in ballo anche il fatto che la nazionale azzurra abbia un bassissimo numero di giocatori di origine africana o comunque di immigrati di seconda generazione.

Al di là delle considerazioni se questo può essere o meno un fattore rilevante riguardo al rendimento della squadra, il dato rimane e vede effettivamente l'Italia calcistica abbastanza indietro su questo versante, a differenza di altri sport come la pallavolo o l'atletica che con squadre dalla composizione etnica estremamente variegata negli ultimi tempi hanno centrato grandi risultati.

L'Italia è più multietnica di quanto rispecchi la Nazionale

La quota di immigrati che risiede regolarmente in Italia da ormai 20-30 anni farebbe pensare ad una maggiore diversità nella rappresentativa del primo sport nazionale, eppure non succede.

Nella spedizione azzurra in Germania per Euro 2024 hanno trovato posto due "nuovi italiani", ovvero Stephan El Shaarawy, savonese di origine egiziana e Michael Folorunsho, nato a Roma da famiglia nigeriana, oltre al brasiliano Jorginho, giunto in italia a 16 anni e naturalizzato sulla base delle origini vicentine del nonno.

La squadra che ci ha eliminato dalla competizione continentale, la Svizzera, è un autentico mosaico multiculturale in cui convivono tanti giocatori nati nel paese alpino da famiglie immigrate in più riprese: dall'esodo dai paesi balcanici (Albania, Kosovo, Bosnia, etc.) degli anni '90 al flusso migratorio proveniente dai paesi africani, finanche ad una nutrita rappresentanza di giocatori di origine sudamericana. Ecco quindi gli "albanesi" Xhaka e Shaqiri giocare a fianco dei "nigeriani" Akanji ed Okafor e i "cileni" Rodriguez e Vargas cantare l'inno a fianco degli "svizzeri al 100%" come Sommer, Freuler e Schar.

Certo, ogni paese ha una sua storia da tenere in considerazione, e certamente l'Italia non è la Svizzera e non ha un passato di stretti rapporti con ex-colonie come possono aver avuto Belgio, Francia, Olanda o Inghilterra.

Ma altri paesi che fino agli anni '90 avevano una rappresentanza di immigrati di seconda generazione molto bassa, un po' come l'Italia (ad esempio Spagna e Germania) hanno cambiato faccia negli ultimi decenni riflettendo anche in nazionale i cambiamenti della società.

Gli ostacoli per i minori di seconda generazione

La scarsa permeabilità di alcune comunità straniere rispetto a quella italiana, sul piano culturale, si riflette anche sul piano sportivo: in Germania una delle comunità straniere più rappresentate è quella turca, che condivide la passione per il calcio in misura uguale ai tedeschi. Molte minoranze etniche presenti in Italia invece non sono tradizionalmente appassionate di calcio, come ad esempio i bengalesi o i cinesi. Ma in genere le popolazioni provenienti dall'Africa (sia che si tratti di Maghreb o di Africa sub-sahariana) o dall'Est Europa condividono la stessa passione per il calcio.

Uno dei fattori che frena l'integrazione nelle nazionali italiane è la burocrazia: ad oggi un ragazzo figlio di immigrati residenti sul territorio italiano deve aspettare i 18 anni prima di poter fare domanda per ottenere la cittadinanza italiana, e non si tratta di un iter burocratico particolarmente veloce. Normalmente a 18 anni un talento calcistico è già stato individuato e cooptato dalle federazioni del paese di appartenenza, ed è più facile sentirsi valorizzato a quell'età da una nazionale con minor concorrenza come quelle albanesi o marocchine.

Il rischio di "perdere" un giocatore su cui la Federazione ha fatto un investimento a livello di nazionale giovanili (come ad esempio il portiere Marco Molle, fiorentino che ha disputato gli Europei e i Mondiali Under 17 con l'Italia nel 2019 per poi scegliere di rappresentare l'Albania) può anche frenare inconsciamente i tecnici italiani e spingerli a puntare maggiormente, nelle selezioni giovanili, sui giocatori che non hanno altre pretendenti.

Il calcio sta diventando sempre più inaccessibile per i meno abbienti

C'è un altro fattore da tenere in considerazione, ed è una questione di cui non si parla molto ma che è forse alla base di tanti problemi del pallone azzurro: il calcio in Italia sta diventando sempre più uno sport elitario.

Non tanto perché abbia maggiore appeal verso le fasce più agiate della popolazione, anzi: anche se si parla di crisi di popolarità del pallone, il calcio resta sempre uno degli elementi più trasversali della società italiana.

Ma lo sforzo economico che richiede seguire un percorso di formazione che offra concreti sbocchi verso il professionismo, ovvero iscriversi alle migliori scuole calcio, frequentarle con costanza anche se distanti dal luogo in cui si vive con tutti i disagi che può portare a dei genitori che lavorano, e soprattutto appoggiarsi ad agenti competenti e che riescano ad offrire concrete opportunità di carriera una volta che ci si affaccia al professionismo comporta investimenti che sono sempre meno alla portata delle famiglie meno abbienti, in particolare quelle famiglie di immigrati che spesso non riescono a contare su due stipendi pieni per mantenere un nucleo familiare che è mediamente più ampio di quello tipicamente italiano.

Ecco quindi che il calcio sta diventando uno sport elitario dove l'investimento economico della famiglia conta tanto quanto, se non di più, del talento e dell'applicazione, un po' come sport storicamente di più difficile accessibilità come golf, vela o tennis, altri ambiti in cui è sempre difficile vedere emergere atleti provenienti da famiglie di immigrati.