Il 19 aprile 1989 San Siro vive una di quelle serate autenticamente da "Scala del calcio", con il Milan di Sacchi che si presenta alla platea internazionale sconquassando i Blancos. Era l'inizio di una vera rivoluzione pallonara.
Prima di ripercorrere la storica serata di San Siro, è il caso di partire ricordando cosa era successo due settimane prima al Santiago Bernabeu. Nella semifinale di andata di Coppa dei Campioni, il Real Madrid era passato in vantaggio con il solito colpo di reni di Hugo Sanchez sul finire del 1° tempo.
A metà della ripresa, però, Mauro Tassotti avanza indisturbato sulla destra e fa partire un cross dalla trequarti verso l'area. Sembra un traversone abbastanza innocuo, ma Marco Van Basten va incontro al pallone, si abbassa ed effettua un colpo di testa in torsione.
La traiettoria coglie di sorpresa il portiere Buyo, che viene scavalcato dal pallone. La sfera finisce sulla traversa ma, tornando verso il campo, colpisce la schiena dell'estremo difensore madrileno ed entra in porta.
Si va pertanto a San Siro sull'1-1 e il non indifferente patrimonio del gol segnato in trasferta che al tempo, così come fino a un paio di anni fa, valeva doppio in caso di parità di differenza reti tra andata e ritorno.
Che il Milan si fosse radicalmente distaccato dalla classica estetica pragmatica del calcio all'italiana, si era capito dall'anno prima. O meglio, lo si era capito in Italia. L'Europa del calcio lo scopre, improvvisamente e fragorosamente, in quella semifinale che è una sorta di manifesto della rivoluzione sacchiana.
Tuttavia, anche un "fracaso" come quello patito dal Real Madrid contro il Milan quella sera, nasce un po' dal caso. Dopo un quarto d'ora di pressione anche se non tambureggiante, Ancelotti riceve ai 60 metri da Gullit, che aveva un po' gigioneggiato sulla destra.
Il futuro allenatore più vincente nella storia della Champions scarta la blanda resistenza di Bernd Schuster e Paco Llorente e fa partire una improvvisa sassata verso la porta.
Il tiro è potente ma centrale, ma il portiere Buyo (in tutta onestà non certo tra i punti di forza di quel Madrid) non riesce a intervenire e la palla finisce in rete. Forse il portiere è ingannato dal suo capitano Gallego, che istintivamente abbassa la testa per non farsi "decapitare" dalla cannonata di Ancelotti.
Ad ogni modo, il manifesto della rivoluzione sacchiana viene svelato all'Europa da un tiro molto bello, ma che non sembrava imparabile un po' come il gol di Magath a Zoff nella finale del 1983.
Quel gol cambia lo spartito tattico dell'incontro, non l'atteggiamento del Milan che continua ad attaccare. Donadoni è una spina nel fianco sulla destra, ben supportato da Tassotti che infatti è autore dell'assist del secondo gol, cross per Rijkaard, autore di uno di quegli stacchi di testa che si possono a ragion veduta definire "IMPERIOSI".
Quel Real Madrid aveva qualità ma era un po' compassato, e viene devastato dalle triangolazioni e dai movimenti senza palla degli avversari. Nasce da una situazione del genere il 3-0, con la specialità di casa Gullit (colpo di testa) che manda le squadre negli spogliatoi e il Milan con un piede in finale.
Se qualcuno avesse avuto ancora qualche dubbio sul nome della squadra qualificata in finale, appena qualche minuto dopo il fischio d'inizio della seconda frazione, Gullit raccoglie un lungo lancio di Rijkaard staccando dal limite dell'area e servendo di testa il connazionale Van Basten.
La sublimazione del Milan degli olandesi si concretizza quando il Cigno di Utrecht, con la consueta eleganza, scarta il difensore e la scaglia all'incrocio di un Buyo mai così incolpevole.
Incolpevole non lo sarà affatto nel 5-0, quando prende sul suo palo un tiro non proprio irresistibile di Donadoni. Dal calcio d'inizio è passata appena un'ora, ma i Blancos non vedono l'ora che lo strazio finisca.
Quello del 1988-89 non era il Real Madrid da 14 Champions League a cui siamo abituati, anzi.
In quel momento il Madrid era nel mezzo di un digiuno molto lungo per le proprie abitudini: dall'ultima Coppa dei Campioni vinta erano passati 23 anni, e altri 9 ne sarebbero dovuti trascorrere prima di rivederli alzare la coppa dalle grandi orecchie, che nel frattempo avrebbe già cambiato denominazione in Champions League.
La presa di potere da parte di Arrigo Sacchi, negli equilibri del calcio europeo, non poteva essere indolore. Una vittima certa di questo processo è stata Leo Beenhakker.
L'allora 47enne allenatore olandese era stato chiamato al Real Madrid tre anni prima, aveva risposto con tre campionati consecutivi, ma già al tempo la dirigenza madridista puntava a un ritorno alla vittoria in Coppa dei Campioni.
La disfatta di San Siro era per Beenhakker come la certificazione di un fallimento, una ammissione di inferiorità che non è nel dizionario del club spagnolo.
Infatti a fine stagione, nonostante la terza Liga consecutiva, la Copa del Rey e la Supercoppa di Spagna, termina la sua avventura sulla panchina dei Blancos.
Non solo, perché il Real Madrid sarà l'ultimo grande club della sua carriera, terminata dopo essere stato CT di Arabia Saudita, Polonia e Trinidad & Tobago, con un breve ritorno a Madrid e due scudetti vinti in patria con Ajax e Feyenoord.
Con la recente scomparsa di Silvio Berlusconi, l'epopea del Milan è stata rammentata più volte. Ma quello che differenziava fortemente il patron rossonero al tempo di questa leggendaria partita era la totale assenza di una componente politica.
O meglio, al tempo l'avventura imprenditoriale di Berlusconi era in piena espansione grazie anche alla storica e mai nascosta amicizia con Bettino Craxi.
Il 19 aprile del 1989 era in carica il 46° Governo della Repubblica Italiana, presieduto da Ciriaco De Mita e con diversi rappresentanti proprio del PSI craxiano al suo interno. Tra questi Oscar Mammì, ministro delle Poste e Telecomunicazioni che fu l'estensore della legge che porta il suo nome, e che fu importantissima per il business di Fininvest.
Al tempo, insomma, Berlusconi era in piena ascesa come imprenditore e come presidente del Milan, all'alba di una lunga stagione di trionfi.
Nessuno poteva immaginare Tangentopoli e la famosa "discesa in campo" del 1994, da parte di un Berlusconi che da lì in avanti sarebbe entrato con entrambi i piedi anche nella storia politica del paese, dopo avere occupato quella sportiva e del costume.
Quel 5-0 al Real Madrid rimase per anni un manifesto della rivoluzione sacchiana e berlusconiana, un manifesto estetico e quasi ideologico. Quest'ultimo aspetto è una curiosa contraddizione tra il Berlusconi presidente-appassionato di calcio e il politico, dove quest'ultimo avrebbe combattuto a lungo per il superamento delle ideologie.
Nel calcio, invece, senza quel meraviglioso furore estetico-ideologico, chissà oggi dove saremmo.